SICILIA 1860: GARIBALDI TAGLIA LA TESTA DI MEDUSA

(di Leonardo e Giuseppe Di Bella) Spesso lo studio della prefilatelia ci porta al cospetto della storia in senso proprio oltre che di quella delle comunicazioni postali.  Questa ricerca storica e postale lunga e complessa, durata oltre 30 anni, evidenzia come il Governo dittatoriale garibaldino abbia proibito l’utilizzo dei sigilli di franchigia postale con la figura della Trinacria, antico simbolo di indipendenza dell’Isola e le motivazioni, politiche e non certo postali, di questo divieto. 

Tra i documenti postali relativi al periodo successivo allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, si ritrovano molteplici casi di utilizzo di sigilli amministrativi di franchigia postale che presentano al centro l’immagine della Trinacria, il cui nome più corretto è trìscele. Questo simbolo apotropaico ha origini remote collocate da alcuni studiosi nel mondo indo ario e comunque in culture pre ellenistiche; esso si diffonde nel Mediterraneo attraverso la mediazione culturale greca, databile attorno al IX secolo A.C.. L’iniziale forma di falce lunare dei tre elementi che componevano la figura, viene trasformata in ambito greco e sostituita dalle tre gambe piegate al ginocchio, con al centro la testa di Medusa.

In Sicilia il Trìscele, in una forma già evoluta, è stato riscontrato raffigurato su manufatti trovati a Gela e presso Agrigento, risalenti al VII secolo avanti Cristo: nella sua forma più evoluta, arricchita dalla cultura ellenica, esso raffigura tre gambe piegate al ginocchio con al centro la testa di Medusa, con le ali ai due lati.

Questo antico simbolo religioso, forse rituale, venne importato in Sicilia appunto attorno al VII secolo A.C. e ne divenne l’emblema più noto, tanto che l’Isola venne identificata fin dall’antichità, anche con questo nome che si aggiunse a quelli preesistenti, legati alla presenza delle popolazioni pre elleniche della Sicilia ovvero i Sicani, i Siculi, gli Elimi ed i Fenici.

La millenaria continuità storica e geografica di questo nome e della sua compenetrazione ed identificazione con l’Isola, viene testimoniata da una pluralità di elementi significativi e ritrovamenti archeologici.

Tra gli elementi di maggiore persistenza va evidenziata la coniazione in Sicilia tra il IV secolo A.C. ed il I D.C., di monete che riportano questo simbolo.

La Triquetra siciliana, quale icona rappresentativa della anelata indipendenza dell’Isola, compare nel 1282 al centro della bandiera innalzata dai rivoluzionari del Vespro siciliano e si staglia sui colori dei due Comuni che per primi si coalizzarono contro gli angioini con il patto solenne del 3 aprile dello stesso anno: il rosso di Palermo ed il giallo di Corleone.

Ma il suggello storico di questa compenetrazione si ha nel 1302 quando con la pace di Caltabellotta, al neo costituito Regno aragonese dell’Isola, viene dato il nome di Regno di Trinacria, per distinguerlo da quello continentale angioino che continua come Regno di Sicilia.

Così come nel 1282, anche nel 1848 la Trinacria venne adottata dal Parlamento rivoluzionario quale icona della rivoluzione stessa e dell’indipendenza da Napoli. Così infatti decretava nel marzo del 1848 il Parlamento siciliano: “Che da qui innanzi lo stemma della Sicilia sia il segno della Trinacria senza leggenda di sorta”.  
 

Durante la rivoluzione del 1848/49 che depose la dinastia borbonica e proclamò l’Indipendenza dell’Isola, avvennero, come sempre accade in questi casi, profondi mutamenti.

Uno dei settori che immediatamente risentì di questi eventi fu quello postale che meglio di altri si prestava a mettere in evidenza ed in circolazione i simboli e le insegne del nuovo potere costituito.

Furono immediatamente sostituiti i bolli in dotazione alle Officine postali dai quali maggiormente trasparivano i segni del deposto regime borbonico, ovvero quelli con la dicitura “REAL SERVIZIO” con l’altro, più “democratico” “SERVIZIO PUBBLICO” o più frettolosamente PUB. SERVIZIO, dove “PUB” venne ricavato dalla scalpellatura e modifica del preesistente “REAL”.

Ma oltre ai bolli propriamente postali, anche quelli amministrativi utilizzati per attestare il diritto a franchigia dell’Ente o del soggetto mittente, vennero deposti insieme alla Dinastia, in particolare il panciuto doppio ovale che, oltre alla dicitura, ostentava le insegne borboniche ed il nome del Re di cui vediamo alcuni esempi postumi molto nitidi.

Questi sigilli vennero sostituiti con altri che rappresentavano l’ammaliante tripode con la testa della Gorgone al centro, emblema del Parlamento rivoluzionario.

Mancando un modello ufficiale uniforme a cui attenersi, si sbizzarrirono i vari uffici pubblici nell’allestimento di questi bolli amministrativi, adottando trinacrie di varie dimensioni e fantasiose fogge, con o senza le spighe, aggiunte in epoca romana per simboleggiare l’importanza della coltura del grano nell’Isola, che invero nel sigillo ufficiale del Generale Parlamento di Sicilia non compaiono.

Alcuni Enti presero alla lettera il dettato parlamentare ed erroneamente interpretando letteralmente l’espressione “lo stemma della Sicilia sia il segno della Trinacria senza leggenda di sorta” omisero perfino il nome dell’Autorità da cui promanava la missiva, dicitura sempre obbligatoria nei timbri di servizio utilizzati per attestare il diritto alla franchigia postale dell’Autorità mittente. Questo spiega la presenza di diverse trinacrie “mute”.

I bolli vennero realizzati quasi sempre in sede locale e con estrema sollecitudine; raramente in ferro, spesso in legno di buona qualità, ma talvolta da artigiani inesperti nell’arte di questa particolare incisione. Dobbiamo comunque rilevare che anche le trinacrie di fattura più rozza, se non ingenua, risultano sempre di notevole impatto visivo, oltre che massimamente espressive.

Con la sconfitta dei rivoluzionari e la restaurazione borbonica, si ritornò allo status quo ante, e scomparvero, con la stessa rapidità con la quale erano apparse, sia le impronte di “Servizio Pubblico” che i sigilli amministrativi recanti la “Trinacria”.

Parte di questi timbri, per comprensibili motivi, furono eliminati dagli stessi rivoluzionari; altri vennero subito distrutti dai restaurati lealisti borbonici, in quanto simboli della soffocata rivolta, mentre una piccola parte venne nascosta dai rivoluzionari anti borbonici, in attesa di “tempi migliori”.

Garibaldi in Sicilia: illusioni ed equivoci

Col Decreto di Alcamo del 17 maggio 1860, Garibaldi con mossa inaspettata, riporta le lancette della storia al 15 maggio 1849 ed apparentemente “continua la rivoluzione dei siciliani”. Fa artatamente rivivere la dichiarazione di decadenza dei Borbone, approvata all’unanimità l’8 aprile 1848, dal Parlamento siciliano.  

“E’ instituito un Governatore in ciascuno dei 24 distretti della Sicilia … ristabilirà in ogni comune il Consiglio civico e tutti i funzionari esistenti prima dell’occupazione borbonica … eserciterà i poteri dati alle commissioni distrettuali coi decreti del 22 luglio 1848 e del 22 febbraio 1849 … le leggi, i decreti e regolamenti, quali esistevano sino al 15 maggio 1849 continuano ad essere in vigore.”

Ma il Dittatore invero è venuto per consegnare l’Isola ai Savoia e non ha alcuna intenzione di riconvocare quel Parlamento simbolo della libertà ed indipendenza della Sicilia. Vi è un passaggio istituzionale fondamentale sul quale è necessario focalizzare la massima attenzione: Garibaldi a Salemi “Decreta di assumere nel nome di Vittorio Emanuele la “Dittatura di Sicilia”, facendo attenzione a non nominare il “Regno di Sicilia”.

Lo stratagemma è sottile: Garibaldi riconosce strumentalmente l’esistenza di uno Stato siciliano usurpato, che altro non poteva essere che l’antico Regno di Sicilia, per potersi proclamare Dittatore di questo Stato … esplicitamente profilando di volerlo consegnare a Vittorio Emanuele II.

E’ chiaro l’intento politico di Garibaldi e Crispi di portare subito dalla loro parte quanti più Comuni e notabili e cittadini, anche facendo credere ai siciliani che essi continuano la strada intrapresa dal Parlamento rivoluzionario. Garibaldi si appropria della storia dei siciliani, scegliendo di essa ciò che gli aggrada e ignorando ciò che non gli conviene. “Dimentica” il Generale che il Parlamento di quello Stato siciliano cui ora si appella e dichiara di ripristinare e rappresentare, aveva rivendicato in perpetuo per l’Isola, lo status di Regno indipendente.

Garibaldi dunque richiama ai posti di comando i secessionisti del 1848, ma in realtà nella sua rivoluzione non vi è nulla di sostanzialmente assimilabile ai principi ispiratori dei moti del 1848.

E prima fra tutte, viene tradita la rivendicazione di indipendenza dell’isola, causa determinante delle tre rivoluzioni del 1820, 1837 e 1848 dei siciliani contro la Corona Borbonica. Questa quarta rivoluzione del 1860 è veramente altra cosa, nonostante i Decreti garibaldini la vogliano artatamente far passare per la continuazione di quella del ‘48.

Una situazione politica alquanto confusa che è lo specchio dell’incertezza che accompagna la caduta del regno delle Sicilie. Si è ripetuto che molti siciliani vennero tratti in inganno dall’azione di Garibaldi, e che erroneamente ritennero che la rivoluzione del 1860 fosse la continuazione di quella del 1848. A supporto di questa tesi, si tenga conto che alcuni comitati rivoluzionari, adottarono come loro simbolo proprio la trinacria e come bandiera il tricolore italiano con il gorgonèion in campo bianco.

Ciò che accadde in campo postale, ci fornisce un ulteriore significativo elemento di giudizio.

Sbarcati i Mille a Marsala, man mano che essi avanzavano vennero posti fuori uso i francobolli con l’effigie di Ferdinando II, ed i vecchi rivoluzionari del 1848 riesumarono i bolli con l’effigie della trinacria e di “servizio pubblico”, dai loro nascondigli e li utilizzarono sulla corrispondenza, non escludendosi che alcune autorità ne abbiano fatto eseguire di nuovi.

Ma le mal riposte speranze dei siciliani, le loro illusioni di libertà ed indipendenza, vennero troncate sul nascere anche in campo postale.

Il sigillo di franchigia adottato dal Comitato di Girgenti, qui riprodotto, è il compendio della confusione ed incertezza politica che si viveva in quel frangente. Il bollo infatti riproduce due bandiere italiane col tricolore incrociate e sormontate dalla Trinacria emblema dell’antica indipendenza dell’Isola, di quella indipendenza che l’impresa garibaldina certo non intendeva ristabilire.

Nel campo bianco delle bandiere, a scanso di equivoci, vennero aggiunte a mano due croci ad imitazione dello scudo dei Savoia. Lo stesso sigillo si conosce usato anche senza l’aggiunta delle croci.

Uno dei primi atti dei nuovi governanti, che faceva già intravedere molto chiaramente che le cose non sarebbero andate nel senso desiderato dagli indipendentisti, fu proprio quello che si riferisce all’uso delle trinacrie.

Ecco di seguito il testo della lettera-circolare che Francesco Romeo, governatore del distretto di Acireale (CT), inviò ai Comuni del circondano:

«Acireale il di 14 luglio 1860.

Signore con sorpresa vengo ad osservare che non tutti i municipi si sono provvisti di suggello nazionale ma che invece, alcuni si servono di quelli del 1848 o di altri così contraffatti che non lasciano rilevare ciò che vogliono intendere.

Ed essendo miglior cosa non far uso di suggello alcuno che porne di o illegali o sconci, io nel riprovare la passata condotta, debbo imporre che subito le amministrazioni e le autorità tutte del municipio si provveggano di legali suggelli.   Firmato il governatore “F. Romeo”».

Dal punto di vista storico postale, questo documento spiega perchè l’uso delle trinacrie nel 1860 sia molto più raro che nel 1848, e non solo per la pregressa distruzione del 1849 o per motivi contingenti, bensì per la precisa volontà politica che questo simbolo non comparisse più.

Va considerato che le disposizioni impartite con la lettera di cui sopra, non erano certo esito dell’iniziativa personale del solerte e zelante Governatore del distretto di Acireale, poiché questi eseguiva ordini superiori, infatti l’uso generalizzato delle trinacrie cessò contemporaneamente in tutta la Sicilia.

Così, dopo circa due mesi dallo sbarco dei Mille, veniva espressamente vietato l’uso delle trinacrie e non possiamo che sottolineare l’ipocrita sorpresa del governatore di Acireale nel constatare che si faceva uso dei “suggelli” della rivoluzione del ‘48, ritenuti “sconci e illegali”, per il solo motivo che i siciliani nell’aderire all’impresa garibaldina, avevano creduto di continuare la rivolta del ‘48, senza accorgersi che adesso la “legalità” era rappresentata dallo stemma sabaudo.

Si tentava invero di cancellare con la Trinacria, la stessa millenaria identità storica della Sicilia. Ma va evidenziato che nonostante queste precise e severe disposizioni, non tutti i pubblici ufficiali siciliani si adeguarono, o meglio si rassegnarono, a mettere da parte il simbolo storico dell’indipendenza dell’Isola.

Infatti l’uso delle trinacrie sarà perpetuato i diversi Comuni e pubblici uffici nel corso di tutto il 1860.

Vi è di più: sono noti diversi casi di utilizzo della trinacria quale contrassegno di franchigia postale, ben oltre la proclamazione del Regno d’Italia, come si riscontra per esempio per i Comuni di Sambuca, Corleone e di Monterosso Almo, che continuarono ad utilizzare il contrassegno rivoluzionario adottato nel 1848 e riesumato dopo lo sbarco di Garibaldi, ancora nel giugno del 1861.

E ancora più tardivamente, e diremo temerariamente, il Comune di Villarosa utilizzò il suo sigillo rivoluzionario con il tripode e la testa di Medusa, fino al mese di agosto 1861  (cfr. “La posta tra due Re” di Nino Aquila e Francesco Orlando – G. Bolaffi Editore) mentre il Comando della Guardia Nazionale di Sambuca, incredibilmente utilizzò la sua trinacria almeno fino a novembre del 1861!

La posta ed i suoi segni, sono stati costantemente oggetto di ostentazione dei simboli del potere costituito, così come nella loro “illegale” persistenza, cosi come nella velocità con la quale il nuovo ordine vuole cancellare le icone del precedente governo.

E a tal proposito in Sicilia nel periodo garibaldino dittatoriale, a far da contro altare alla permanenza delle riesumate trinacrie rivoluzionarie, ora “illecitamente” utilizzate, vi sono i tanti casi in cui i sigilli postali di franchigia con l’insegna borbonica vennero subito aboliti e sostituiti da quelli con le insegne dei Savoia.

Si distinse in questo veloce “cambio di bandiera” il distretto di Acireale nel quale già due giorni dopo la ritirata dei borbonici, il sei giugno 1860, erano in uso i nuovi sigilli con le bandiere dei  Savoia, come si rileva dalle date d’uso dei bolli delle “Governo del distretto di Acireale” della “Intendenza del circondario di Acireale” e della “Questura del distretto di Acireale”,  circostanza che induce più che un sospetto sulla loro commissione ed esecuzione ancor prima della ritirata dei regi da Catania.

E’ opportuno evidenziare che, al contrario di quanto accaduto per i francobolli e per i sigilli di franchigia con l’effigie della Gorgone, il Governo dittatoriale non sostituì i bolli ovali nominativi già in dotazione alle officine postali. In tutto questo vi è una logica, la stessa utilizzata dal governo rivoluzionario del 1848, poiché gli ovaloidi in dotazione alle officine non riportavano alcun simbolo del deposto regime borbonico. Nulla infatti questi bolli evidenziavano, se non il nome dell’officina o le diciture di servizio quali “FRANCA” e “ASSICURATA”.

E così le impronte nominative ovali delle officine siciliane continueranno ad essere utilizzate sino alla loro sostituzione con i nuovi annulli circolari detti Sardo-italiani. La tardiva fornitura degli stessi rispetto alla adozione in Sicilia, il primo maggio 1861, dei francobolli della quarta emissione di Sardegna utilizzati per tutti i territori annessi al regno d’Italia, determinerà, fino all’autunno del 1861, l’annullamento dei francobolli “italiani” con gli ovali borbonici.

Ma, varcato lo Stretto di Messina, Garibaldi avrebbe ritrovato sulla sua strada l’indomita Trinacria con l’infida Medusa. Infatti l’evocativa immagine della Gorgone era incisa anche sui francobolli emessi il 1 gennaio 1858 per i domini al di qua del faro, ovvero quelli continentali del Regno delle due Sicilie che Garibaldi si accingeva a conquistare.

Si tenga conto che i due antichi regni di Sicilia e di Trinacria erano stati formalmente e giuridicamente unificati solo nel 1816, nell’ambito della restaurazione sancita dal Congresso di Vienna, dando vita al nuovo Regno delle due Sicilie.

I francobolli napoletani conservavano ed esibivano proprio la memoria storica di questa unificazione: su essi comparivano oltre i gigli della dinastia dei Borbone, i simboli identificativi dei due ex regni unificati, ovvero la Trinacria per quello isolano e il Cavallo rampante per quello napoletano.

Delle origini della compenetrazione fra la Trinacria e la Sicilia abbiamo già detto, mentre risulta meno chiara la genesi del cavallo rampante quale simbolo del Regno di Napoli.

Infatti sussistono diverse teorie. La più ricorrente fa risalire questa simbologia al periodo del Comune Autonomo di Napoli (1251), quando gli Svevi con Manfredi e poi con Corrado, non riescono ad espugnare la città. Infine, a fronte di tante promesse dell’Imperatore la città si arrende e la sua collera abbatte su una maestosa statua di un cavallo sfrenato in bronzo che simboleggiava il Seggio o Sedile (Quartiere) di Capuana che viene distrutta. La testa di questo cavallo di bronzo viene conservata nel palazzo dei conti di Maddaloni; la restante parte del corpo venne fusa per ricavarne campane.  

Altrove si narra che al cavallo, prima della distruzione, venne posto il morso o freno a simboleggiare la sottomissione della città.

Altri Autori sostengono che un cavallo rampante bianco in campo azzurro abbia rappresentato lo stemma di Napoli ducale, ma non ci sono conferme documentali sufficienti per avvalorare questa ipotesi.

Altra minoritaria tesi identifica il cavallo rampante con la Chinea, ovvero con il cavallo bianco (altrove mulo o asina), che sarebbe divenuto simbolo del regno di Napoli in epoca angioina, perché ogni anno, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, trasportava in groppa il tributo che veniva versato al Papa in segno di riconoscimento dei diritti feudali di Questi sul regno.

Pur se di incerta origine, resta il fatto che da secoli il simbolo di Napoli era il cavallo rampante che vediamo inciso nei francobolli per i domini al di qua del faro…la Trinacria non era ben vista… ma la fretta di disporre di un francobollo corrispondente alla nuova tassa ridotta per la spedizione dei giornali, determinò l’emissione di quel magnifico francobollo che ancora oggi chiamiamo …Trinacria. 
La Trinacria napoletana venne emessa in tutta fretta il 6 novembre 1860, durante gli ultimi giorni della dittatura garibaldina. Non potendosi approntare subito l’incisione di un nuovo francobollo, si decise di scalpellare parte della tavola del mezzo grana della emissione napoletana trasformando la “G.” (di Grana) in una “T.” (di Tornese) e di mutare il colore da rosa carminio in azzurro.

Ma questa operazione lasciava integra la figura incisa e quindi anche il tripode, il cavallo rampante e i gigli dei Borbone.

Si ripresentava dunque il problema già verificatosi in Sicilia, ovvero quello di cancellare tutti i segni distintivi della deposta Dinastia.

La “Trinacria” venne quindi sostituita nel volgere di appena un mese, e il 6 dicembre successivo, per l’affrancatura dei giornali, venne emessa la cosiddetta “Crocetta”.
Si procedette infatti a scalpellare la parte centrale degli stereotipi della Trinacria, che conteneva appunto i simboli da eliminare e al loro posto venne incisa  la croce bianca dei Savoia.

Garibaldi aveva vinto la sua battaglia contro la Gorgone … ma i simboli dei popoli sono duri a morire e a distanza di 27 secoli dalla sua “importazione e adozione”, la trinacria campeggia ancora al centro della bandiera ufficiale della Sicilia.

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Mar 13, 2019 | Posted by in Articoli | Commenti disabilitati su SICILIA 1860: GARIBALDI TAGLIA LA TESTA DI MEDUSA
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