Schiavi, pirati e trafficanti d’uomini: la speranza affidata alla posta

(di Leonardo e Giuseppe Di Bella) È noto che le coste della Sicilia, ed in genere di tutte le regioni che si affacciano sul Mediterraneo, sono state soggette ad incursioni di pirati barbareschi fino al XIX Secolo. Lo scopo delle incursioni era quello di razziare cose, animali e soprattutto catturare uomini da ridurre in schiavitù o per i quali chiedere un riscatto.

È forse meno noto che le scorrerie erano reciproche e che anche legni siciliani e “italiani”, a volte muniti di “Regia Patente” autorizzativa, aggredivano per lo stesso scopo i villaggi costieri dell’Africa.

Dall’antichità e fino alla metà dell’Ottocento, la tratta degli schiavi è stato un fenomeno di grandi dimensioni in tutta l’area del Mediterraneo ed era collegata non solo alle razzie ma anche ad un mercato derivante dalle sopraffazioni di alcuni gruppi etnici verso altri più deboli.

La mano d’opera a basso costo era un elemento costitutivo delle deboli economie agricole e rurali specialmente fino al XVI Secolo, periodo in cui si registra in Europa un significativo e costante incremento della popolazione.

Per la difesa delle coste dalla pirateria barbaresca era stata fondata in diversi Paesi cattolici la “Santa Crociata”, Opera che si prefiggeva lo scopo di raccogliere fondi attraverso la vendita di indulgenze, al fine di armare vascelli in grado di prevenire e contrastare le incursioni.

Per la liberazione dei cristiani catturati dai barbareschi, operavano anche in Sicilia, almeno fin dal XIV Secolo, diverse istituzioni religiose. Al fine di coordinarne gli sforzi operativi venne costituita a Palermo nel 1585 la “Deputazione (o Opera) per la redenzione dei cattivi” (prigionieri).

Questa Deputazione, costituita presso la chiesa di Santa Maria la Nova, aveva il fine istituzionale di raccogliere fondi attraverso l’elemosina e con questi pagare il riscatto degli schiavi cristiani.

I ritrovamenti di lettere del XVIII e XIX secolo viaggiate dall’Africa in Sicilia hanno originato una serie di articoli pubblicati sulle riviste specializzate ove è stato evidenziato come l’Amministrazione postale borbonica, con spiccato senso di cristiana carità, spesso non sottoponeva al pagamento della tassa postale (che fino al 1858 si pagava in arrivo) le missive contenenti le suppliche ed in genere le corrispondenze provenienti da prigionieri o schiavi cristiani in suolo d’Africa.

Oggi un nuovo tassello si aggiunge a questa storia. Dopo molteplici tentativi, siamo riusciti a decifrare il testo di una lettera del 1806 che ha rivelato… l’altra faccia della medaglia.

La missiva è datata «La Goletta 19 Agosto 1806” è scritta da un certo Mesacitte Reabbo, probabilmente un facoltoso mercante Ottomano, ed è destinata al fratello prigioniero o più esattamente schiavo… in Sicilia.

La scelta del siciliano per comunicare, è probabilmente determinata dal fatto che la missiva era indirizzata ad un certo Capitano Domenico Romeo incaricato di consegnarla al destinatario, al quale sarebbe stata letta da un altro siciliano.

Il documento svela aspetti veramente sorprendenti e non solo per la storia postale.
Per l’interesse linguistico se ne riporta il testo prima come scritto in origine senza alcune correzioni inserite a destinazione per renderlo leggibile, e dopo tradotto in lingua corrente:

 «La Goletta il 19 Agosto 1806

 Fratello mio carissimo

Con la presente e siccoro comito non lascio di notificarti lottomo stato di mia salutte chi stesso spero sindere dite e io ho parlato con Giallune ema resposto chi vole sappere si sitte vinnoto e lu padrone ti vole vinnire con dinare o p cambio con li cristiane. Dugna voglio essere avisatto como mi divo regolare – e salamiche milich ep soleme e salamiliche cosemo e alì e con tutte salamiliche miliche p soleme e io voglio sappire dove treretrove p io parlare con lu Giallune e con lu Bei e scrivimi subito chi tiene comito- chi sopra carta p la Goletta a Antonio Tortorici e ricapita a Mesacitte Reabbo


Mi fermo alla Goletta porto di Tunisi tuo frattello Mesacitte Reabbo –  Vota lu foglio

 Caro capetano Duminìco Romeo ci prego di fare capitare questa lettera a le tre mura chi siane portato le cristiane fattemi la finizza.”  La Goletta il 19 agosto 1806

 Fratello mio carissimo

Con la presente ora che posso non lascio di notificarti l’ottimo stato della mia salute e lo stesso spero sentire di te. Io ho parlato con Giallone e mi ha risposto che vuole sapere se siete venduto e se il padrone ti vuole vendere per denaro o scambiarti con cristiani.

Dunque voglio essere avvisato di come mi devo regolare — e salamliche miliche per soleme – e salamiliche miliche per cosimo ed ali. Con tutte salamiliche per soleme – e io voglio sapere dove ti ritrovi per io parlare con il Giallone e con il Bei e scrivimi subito appena puoi e sulla lettera (indirizza) per La Goletta a Antonino Tortorici che recapita a Mesacitte Reabbo

Mi fermo alla Goletta porto di Tunisi tuo fratello Mesacitte Reabbo – Volta il foglio

Caro Capitano Domenico Romeo vi prego di recapitare questa lettera alle tre mura che sia portata ai cristiani fatemi la finezza.

 Risulta dunque evidente che il destinatario si trovava schiavo a Trapani, catturato da pirati siciliani durante una scorreria in Africa ovvero acquistato da un padrone siciliano da uno dei tanti trafficanti che deportavano schiavi in Sicilia dopo averli acquistati nei mercati africani, della costa adriatica e del Levante. Infatti gli schiavi presenti in Sicilia secondo i dati dei censimenti effettuati dal 1500 in avanti, appartenevano a diversi gruppi etnici tra i quali anche i bosniaci (boschini), russi di religione cristiana, circassi oltre ai barbareschi e alle popolazioni nere dell’Africa interna sub sahariana.

Ritornando alla lettera, il mittente chiede al fratello se è stato venduto come schiavo e se il padrone lo vuole vendere o scambiare con «li cristiani” (prigionieri in Africa). La missiva come sopra ricordato, non è direttamente indirizzata al fratello bensì al Capitano Romeo incaricato di recapitarla al destinatario del quale il mittente non conosce esattamente l’ubicazione: “ricapita alle tre mura di miscane e cosimo ali e miscane a Trapane”.

La barca che trasportò la lettera la affidò al suo arrivo in Sicilia al servizio postale che in transito a Palermo appose sulla soprascritta l’impronta “PALERMO” del 1° tipo in colore giallastro, da qui la missiva venne inoltrata a destinazione.

Sulla soprascritta troviamo vergata da altra mano (in arrivo a Trapani) la frase “littera di schiavo causa per la vita”.

Quest’ultima annotazione è da mettere in relazione con la detassazione della missiva. Infatti, ed è proprio questo il punto centrale della vicenda, il piego prima assoggettato a tassa postale per 5 Grani, come vergato a penna, venne poi detassato (il segno 5 venne sbarrato) al momento della consegna al destinatario senza l’esazione di alcuna tassa, stante che lo stesso dimostrò, aprendola, la natura della lettera. Risulta pertanto inequivocabile che le poste borboniche usarono nei confronti del prigioniero barbaresco lo stesso riguardo riservato ai prigionieri siciliani in terra d’Africa.

Alla storia postale siciliana, le cui vicende vediamo ancora una volta essere intrinsecamente legate a quelle della storia umana in senso proprio, la missiva aggiunge un inaspettato tassello poiché comprova l’esistenza di una franchigia che non può essere considerata una iniziativa personale o locale, Infatti, che il piego contenesse una corrispondenza diretta ad uno schiavo, non era possibile stabilirlo se non quando il destinatario Capitano Romeo non lo avesse aperto e letto.

Quindi apparentemente la missiva (unica conosciuta con detassazione di questo tipo) era indirizzata ad un soggetto che avrebbe dovuto corrispondere la relativa tassa e coerentemente venne “presa in carico” contabilmente (a Palermo). Sappiamo che sussisteva una precisa contabilità dei mazzi di lettere al momento delle varie consegne: risulta dunque evidente che per il discarico della somma di cinque Grana, originaria tassazione della lettera, sia stato compilato da parte dell’Ufficio addetto alla consegna, un giustificativo ufficiale e scritto, il che ci fa concludere che la concessione della franchigia anche in questi casi fosse una prassi ufficiale.

Un’annotazione merita l’Amministrazione borbonica spesso additata quale esempio di rigidità ed eccessiva parsimonia, aggettivazioni che forse sarà il caso di ripensare.

Analizziamo adesso un altro caso di posta riguardante schiavi siciliani cristiani detenuti in Algeri.

Nel caso ora in esame, pur se la missiva è proveniente da schiavi siciliani in terra d’Africa, la tassa in arrivo è stata invece riscossa, e vedremo perché.

La lettera in esame è datata 6 Maggio 1780 ed è indirizzata “All’Eccellentissimo Principe della Trabia, Presidente della Deputazione per la Redenzione dei cattivi in Palermo”.

La lettera è scritta in italiano in bello stile e con dotte citazioni in latino; l’estensore è persona di istruzione superiore e probabilmente con bagaglio di studi umanistici, nonché buona conoscenza della Società palermitana. Ne riportiamo uno stralcio per rendere giustizia e omaggio alla profonda Fede dell’estensore di cui lo scritto è intensamente pervaso:

“Eccellentissimo Principe

Indotti siamo a ricorrere a Vostra Eccellenza noi poveri meschini schiavi in questa d’Algieri….

Ah! crediamo, come presso l’onnipotenza divina speriamo, ottenere la nostra libertà tanta da noi desiderata. Sì dunque a Voi Eccellentissimi Signori preghiamo a Voi tutti supplichiamo ed a gran voce gridiamo “Redemptor noster mortus est in crucis propter redemptionem humani generis” (Il nostro Redentore è morto in croce per la redenzione del genere umano).

…Si dunque Eccellentissimo Presidente ed Eccellentissimi Deputati con pure lagrime di sangue che spargiamo, a Voi altri ci raccomandiamo aggiutateci, o Amici benefattori di questa di Palermo deh? Soccorrete l’elemosina per noi poveri che Iddio sarà remuneratore di una tale carità. “Elemosina a morte libera et ipsa est que purgat peccata” (L’elemosina libera dalla morte ed è essa stessa che purga i peccati)….

Di Vostra Eccellenza

Algieri a 6 Maggio 1780

La supplica è stata scritta da uno dei firmatari, Bernardo Iazzolini di Palermo, come testimonia il confronto tra la grafia del testo e la stessa.

Il collegamento tra pirateria e mercato degli schiavi nel Mediterraneo è strettissimo poiché le scorrerie sia degli africani che dei levantini, ma anche dei legni siciliani, erano uno dei mezzi principali per rifornire questo florido quanto inumano commercio.

La schiavitù come elemento delle economie rurali è fenomeno antichissimo legato spesso a fattori contingenti. In Italia la peste del 1348 aveva decimato la popolazione e quindi determinato un aumento smisurato del costo della mano d’opera ridando così slancio al crudele mercato.

Ritornando al documento in esame ed ai suoi aspetti storico-postali, si evidenzia subito l’indirizzo che è insieme un programma di viaggio ed un viatico che fa appello alla cristiana Carità di chi avrà tra le mani il piego; così recita:

A SUA ECCELLENZA

ECCELLENTISSIMO SIGNOR PRINCIPE DELLA TRABIA

PRESIDENTE DELLA DEPUTAZIONE

LETTERA DEI POVERI SCHIAVI DI ALGIERI

PER AMOR DI DIO E DI MARIA SANTISSIMA

O CRISTIANI DATELA PER CARITA’

MARSIGLIA   –   IN   SICILIA

PALERMO

La missiva venne dunque affidata a Persona imbarcata su un legno francese o diretto comunque in Francia a Marsiglia. L’estensore precisa nell’indirizzo che da Marsiglia la lettera dovrà proseguire per la Sicilia e quindi recapitata a Palermo.

Visto il tenore del contenuto dobbiamo ritenere che la lettera sia stata segretamente affidata al suo primo corriere.

Risulta evidente che il mittente non poteva prefigurare il destino della missiva né per quali vie da Marsiglia sarebbe “forse” giunta a Palermo. Questo “forse”, determinato dall’insicurezza dei trasporti e dal dubbio che qualcuno rifiutasse di trasportare la lettera ritenendo di non recuperare la relativa tassa, tormentava il povero Iazzolini e lo spingeva ad affidarsi vieppiù alla Provvidenza Divina.

Le invocazioni cristiane nell’indirizzo hanno dunque un duplice significato: primo “assicurare” il recapito a destino legando il cammino della lettera ad un fatto di Fede e Carità cristiana e secondo renderla in qualche modo “franca” da pretese di denaro per il suo trasporto, sia da parte di privati che da parte di amministrazioni postali: ”O Cristiani datela per Carità”.

Ma in questo caso, al contrario di quello precedentemente illustrato, sussistevano  condizioni diverse, infatti la missiva non veniva inoltrata per il tramite del sistema postale borbonico, ma doveva transitare attraverso la rete di altre amministrazioni postali.

Il piego giunse a Marsiglia 60 giorni dopo e non ci è dato sapere come mai il percorso sia stato compiuto in così lungo tempo: se la nave partì con ritardo o condusse una rotta più lunga con diversi scali o ancora quali peripezie le occorsero. Giunse infatti a Marsiglia il 4 Luglio 1780, come vergato al verso ( Du. 4 jullet 1780), e qui venne presa in carico dall’Amministrazione postale francese come comprovato dall’impronta “Marsiglia” apposta in nero sulla soprascritta.

La presenza di più tassazioni sul fronte del piego comprova che esso proseguì via terra per la Sicilia: infatti se fosse pervenuta a destino via mare per la rotta Marsiglia – Palermo, avremmo riscontrato una sola tassazione. Al contrario ritroviamo sul documento una serie di indicazioni contabili corrispondenti alla tassa che ogni Amministrazione postale che ha trasportato la lettera ha riscosso per proprio diritto. Le indicazioni iniziano con il “6” apposto al retro a Marsiglia che nel sistema francese indica 60 centesimi da esigere, segue verosimilmente il segno “3” e poi ancora un “26”, un “8” ed infine una tassazione di 15 grana sicuramente effettuata a Palermo in arrivo che rappresenta la cifra pagata dal Principe di Trabia al momento in cui gli venne recapitata la missiva.

Ed è questo il punto centrale su cui focalizzare l’attenzione: infatti l’amministrazione postale borbonica aveva sostenuto una spesa “viva” per acquisire (“riscattare”) la lettera dall’Amministrazione postale che la deteneva e che l’aveva trasportata ai confini dello Stato.

Proprio al confine generalmente, in assenza di convenzione postale, le diverse amministrazioni eseguivano il cambio per consegna delle corrispondenze, compensando con complicate contabilità, determinate anche dalle diverse valute, le rispettive spettanze.

Dunque sostanzialmente l’acquisizione della missiva ed il suo trasporto rappresentavano un costo e l’amministrazione non poteva rinunciare al relativo pagamento. Di contro il destinatario Principe di Trabia, come d’uso all’epoca dei fatti, non si rifiutò al pagamento della tassa perché pagare in arrivo la posta era considerato un adempimento d’onore e non solo per i nobili, quanto offensivo era considerato ricevere posta pagata in partenza dal mittente.

Pertanto anche se già dall’indirizzo risultava che la lettera conteneva una supplica di schiavi, l’essere pervenuta la missiva in Sicilia per il tramite di altre amministrazioni postali non consentì di accordare franchigia come avvenuto in altri casi, nonostante il riconosciuto valore morale dell’opera svolta dalla Deputazione e, come oggi si dice, i suoi scopi non di lucro.

Restano oscuri i motivi per i quali Bernardo Iazzolini affidò il messaggio ad una nave per Marsiglia e non ai natanti che direttamente facevano rotta per la Sicilia, ma è logico presumere che ciò sia avvenuto perché Egli, nel suo stato di prigionia e schiavitù, ebbe solo questa opportunità e non altre.

La regola della riscossione integrale di quanto anticipato ad altre Amministrazioni postali, osservata dall’amministrazione postale borbonica, trova indiretta conferma anche nella limitata esenzione dalla tassa postale accordata in Sicilia agli Ordini Mendicanti, applicabile solo alle missive viaggianti all’interno dell’Isola.

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Nov 11, 2020 | Posted by in Articoli | Commenti disabilitati su Schiavi, pirati e trafficanti d’uomini: la speranza affidata alla posta
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